Storie di ordinaria cooperazione

IMPARARE DA CHI INCONTRIAMO

L'esperienza della Comunità Gandina della Cooperativa Famiglia Nuova di Lodi che opera sulle dipendenze problematiche.

mercoledì 13 settembre 2023

La comunità Gandina, una delle 6 comunità residenziali gestite dalla cooperativa Famiglia Nuova, ospita, per progetti riabilitativi, persone con dipendenza problematica. Spesso si è ritrovata ad aver per lo più ospiti sottoposti a provvedimento dell’autorità giudiziaria, in particolare affidamento, arresti e custodia cautelare, più qualche caso di misura di sicurezza.

 

Se si dovesse sintetizzare in poche parole il sistema di lavoro adottato, si potrebbe racchiudere nel concetto di responsabilizzazione, un sistema di autodeterminazione individualizzato. In questo modo attraverso l’idea di responsabilizzazione della persona è possibile  intervenire su un’utenza socialmente trasgressiva, maggiormente dedita al reato, e allo stesso tempo su un’utenza maggiormente dipendente dalla sostanza. La responsabilità individuale ha varie sfumature del problema è un qualcosa che è venuto a mancare nella persona ospite della comunità e per questo è ritenuto il primo punto su cui far leva. Anche chi entra con il semplice bisogno di scavallare la galera arriva ad un certo punto a modificare il suo obiettivo vivendosi esperienze di fiducia che molte volte nemmeno i genitori gli hanno fatto vivere, così qualcosa di positivo per sé che userà nella sua vita se lo porta a casa.

 

La responsabilizzazione della persona passa di fatto attraverso l’esperienza quotidiana all’interno e all’esterno della comunità. In Gandina tutto è strumento educativo e materiale di lavoro: una porta, una comunicazione di uscita alle forze dell’ordine, la ricerca di un orario dei mezzi di trasporto.

 

Tutto è strumento individualizzato: la porta dell’ufficio! Aperta per chi non rispetta i limiti e i confini e deve imparare a chiedere permesso anche davanti ad una porta (intenzionalmente) aperta: chiusa, davanti ad uno che deve imparare a non avere paura di sfondare e chiedere!

Nel concreto, con il cambiamento dell’utenza, sempre più sottoposta a misura giuridica e non sempre meramente dipendente, si è reso necessario anche un cambiamento del sistema della comunità. Cambiamento che è avvenuto in modo graduale e flessibile così da potersi adattare anche al gruppo degli ospiti che per sua natura non è stabile. Il cambiamento maggiore è stato nella riduzione della dimensione normativa e quella del controllo.

 

Avendo un’utenza trasgressiva va da sé che questa identità è quella che la fa da padrone, ma riducendo le regole si toglie anche l’arma del “io sono fatto così e le regole mi stanno strette”. Lo stesso vale per il controllo: se qualche anno fa (2015 circa) si tendeva ad una costante verifica della presenza degli ospiti nelle attività ergoterapiche, con tanto di un report settimanale verificato e discusso nelle riunioni di èquipe per decidere se accordare o meno le richieste avanzate dagli ospiti, nel tempo questa dimensione è stata abbandonata con l’idea che quello che alla fine conta è il risultato del lavoro che può arrivare in tempi diversi da quelli che l’operatore ha in testa (esempio banale: in estate che fa caldo non importa che gli esterni vengano puliti all’ora che decidiamo, ma importa che siano puliti poi quando farlo lo decide l’incaricato; non importa che facciano l’assemblaggio 8 ore al giorno, ma che al giorno della consegna il lavoro sia pronto).

 

Questo passaggio è stato il frutto di un lavoro portato avanti nel tempo in collaborazione con l’utenza, intendendo con collaborazione la capacità dell’équipe educativa (che nel corso degli anni è cambiata, ma che ha avuto un cuore storico in alcune figure) di ascoltare veramente l’utenza e quindi capire cosa vuol dire provenire da una situazione di restrizione e istituzione totale quale è un carcere. Il vantaggio dell’équipe è stato anche quello d’essere cresciuti e formati da chi certi tipi di esperienze li ha vissuti sulla sua pelle ed ha saputo trasmettere il perché di certi passaggi e interventi. Per esempio il vissuto di stare nella dimensione dell’attesa che è diverso per una persona proveniente dal carcere da quello di una persona che ha un mero problema di dipendenza. Questo ci ha dato la linea per attuare e comprendere il cambiamento, oltre che la forza e la capacità di portarlo avanti.

 

Questo ha permesso di modificare a poco a poco quelli che erano i motivi di contrasto che vi erano tra gli educatori e l’utenza: gli educatori talvolta identificati in carcerieri e gli utenti ri-catalogati come devianti cronici. L’ascolto del loro vissuto all’interno della comunità ha permesso invece un venirsi incontro e superare questo impasse di etichette. Comprendere che senza regole si ottiene di più non è certo stato facile e talvolta è stato un salto nel buio. Si è sperimentato e risperimentato e cambiato e ricambiato e ancora si sta facendo e si farà sempre sperimentazioni e cambiamenti in base agli ospiti che si incontreranno.

 

Tra le varie sperimentazioni in tante occasioni si è provato a lasciar in mano all’utenza la gestione della comunità, quasi andando verso un’autogestione, che ha funzionato fino a quando non hanno attivato loro dinamiche di controllo che non si voleva avvenissero. E davanti a qualcosa che non funziona si tiene il buono e si scarta il disfunzionale. Per cui si è lasciato autonomia ai responsabili delle attività: dispensiere che va a far la spesa in autonomia con un budget definito; il lavandaio che è libero di trovare una sua organizzazione per portare avanti la lavanderia; il manutentore che in autonomia si appoggia ad altri ospiti per i lavoretti interni; il responsabile dell’assemblaggio; il responsabile del verde; e via dicendo…

 

Tutti questi responsabili devono coordinarsi tra di loro perché le varie attività interne stiano in piedi: devono coordinarsi per la gestione degli spazi di lavoro e devono dialogare anche con il resto dell’utenza per arrivare al risultato oltre che con l’équipe per l’organizzazione più generale della comunità a livello di uscite, turni di cucina, colloqui, riunioni di gruppo plenarie e mini gruppi. E quando tutto funziona, si cambia e si riprova ad aumentare gli spazi di autogestione e se il gruppo dell’utenza lo consente si riprova ad andare verso l’autogestione, tenendo sempre il buono e scartando il disfunzionale.

 

Insomma, il sistema di gestione della quotidianità all’interno della comunità si avvicina sempre di più all’idea di funzionamento di un’organizzazione, di un sistema comune (non mi piace la parola normale ma sarebbe quella!). In questa direzione allo stato abbiamo un gruppo composto da 20 ospiti di cui 18 sottoposti a misura che hanno trovato un modo di gestirsi positivamente. Si organizzano con le turnazioni dei piatti in modo autonomo e non si verificano più le situazioni di scontro con l’équipe che “non mette mai tizio, caio è sempre fuori e scavalla il turno”: sono loro che conoscendo gli impegni che hanno nel corso della settimana che si segnano nella turnazione e lo comunicano all’ufficio. E lo stesso vale per l’organizzazione dei lavori e per altre turnazioni.

 

Il paradosso che si è affrontato più volte è che ad un tirarsi indietro consapevole e con valenza educativa, faceva seguito la richiesta da parte dell’utenza di un aumento di controllo e di regole. Si è sempre tenuto duro, sarebbe stato più semplice ripristinare un sistema di premi e punizioni, lavoro e beneficio, ma non andava nella direzione della nostra idealità! Come proseguire? Con il dialogo, con la relazione e con un ulteriore investimento sul protagonismo delle persone: un continuo spiegare e rispiegare il senso del non cambiare, un continuo riproporre a loro le ragioni del perché non si vuole tornare indietro, un continuo rimandare a loro nel concreto perché stanno seguendo un percorso di recupero e come dovranno fare i conti con la realtà fuori. Questo è possibile sempre grazie al loro ascolto che permette di riprendere quello che esplicitano e lasciano implicito nel corso dei colloqui e delle riunioni e anche nei momenti di dialogo informali. Partendo dalle loro stesse parole, si ottiene!

 

Tutti gli educatori di comunità si saranno sentiti dire “ma fuori è diverso!” e noi cerchiamo di avere un dentro il più simile al fuori possibile. I nostri riferimenti normativi principali vengono dalla realtà: prescrizioni, regole socialmente condivise e denaro. Le prescrizioni, per chi le ha, definiscono per natura come può muoversi una persona sottoposta a provvedimento. Regole socialmente condivise comportano banalmente che un conflitto si risolve a parole e che il sistema funziona quando ognuno gioca il suo ruolo all’interno dell’organizzazione.

 

Il denaro è quello che ti permette di uscire e gestire un limite, stare dentro e possedere certi beni. Il gruppo è eterogeneo per possibilità: se uno può mangiare aragosta tutti i giorni che la mangi tutti i giorni, se la mette nel piatto durante il pasto condiviso va condivisa, se la mangia per conto suo lo fa fuori dall’orario di uso della cucina. Tutti gli ospiti hanno il loro telefono cellulare, un tempo consegnato dopo un mese dall’ingresso, dalla pandemia all’atto di ingresso. Il mondo ormai viaggia con questo strumento in mano e non si può, dal nostro punto di vista, non inserirlo tra gli strumenti comunitari.

 

È anche un modo per far parlare ospiti ed operatori la stessa lingua. È anche un modo per evitare di perder tempo alla ricerca di telefoni nascosti. È uno strumento quando gli utenti assillati dai familiari che trasmetto ansia chiedono di consegnarlo in ufficio per non sentirli (le persone sono dei paradossi!). Lo stesso vale per gli incontri con la famiglia: se nulla osta da parte di decreti e servizi (come per esempio la tutela minori) che si vedano da subito. A volte i familiari possono esser disfunzionali per l’utente, è vero, ma quei familiari sono la loro realtà, sono il contesto con cui avranno a che fare alla fine del percorso il 90% delle volte, e questo è tutto materiale educativo su cui impiantare l’intervento individualizzato.

 

Ascoltare e partire da loro implica anche imparare da loro e usare e trasmettere quanto imparato. Infame! Per anni abbiamo cercato di far capire che infame in comunità non esiste, fino a quando uno degli ospiti un anno fa ha detto nel corso della plenaria “non siamo in carcere. Infame non è chi ti dice vai tu in ufficio a dire che stai bevendo/usando sostanza o ci vado io. Infame in comunità è quello che si segna per una attività e non si presenta, facendo sì che siano i tuoi compagni a coprire la tua mancanza”. Questa frase è diventata una sorta di mantra, lui ora è a casa sua, ma continua a girare sulle bocche dei ragazzi che sono in comunità oggi e che nemmeno l’hanno sentita pronunciare. E noi operatori la ripetiamo.

 

Ascoltare e imparare dall’utenza. È così che gli operatori storici di questa équipe hanno affinato le conoscenze giuridiche. I maggior esperti di giustizia sono forse i detenuti, più degli avvocati. Umiltà di chiedere aiuto agli avvocati davanti alle difficoltà. Affidarsi all’Uepe; inviare noi le istanze la cui stesura diventa un momento di confronto operatore-utente; le informative; non temere di chiedere quando incerti; rispondere tempestivamente alle richieste che arrivano di relazioni, di informazioni, di confronto con gli educatori e con gli affidati. E così nasce la relazione con gli assistenti sociali dell’Uepe, che sono cambiati (dal 2014 ad oggi ne sono cambiati 3) ma la relazione con l’istituzione si è creata e al cambiare dell’assistente sociale la collaborazione resta perché storicizzata.

 

Nel corso del tempo quindi l’équipe educativa ha accresciuto la conoscenza e la formazione sui temi legati alla giustizia. Conoscenza che viene trasmessa anche ai nuovi educatori che entrano a far parte dell’équipe, inizialmente con le nozioni base di una semplice differenza tra le misure e la lettura delle prescrizioni, che via via si rendono autonomi tutti nella presentazione di istanze degli ospiti e nell’interloquire con i vari soggetti che hanno a carico l’utente sottoposto alla misura.

 

 

Il rapporto con i servizi territoriali invianti si è costruito più o meno nello stesso modo. Non lasciandoli indietro ma coinvolgendoli. Questo magari ha significato anche un contrattare il percorso dell’utente che entra con certi obiettivi e che magari il Sert non condivide. Inizialmente ci siamo trovati a doverci affidare ad alcuni Sert per arrivare a costruire un rapporto di fiducia che ci ha permesso nel tempo di proporre e andar sempre più a rispondere alla autentica richiesta della persona. Con i servizi siamo stati aiutati ancora una volta dagli ospiti che avevano un legame storico e positivo con il loro Sert/Smi e ci hanno invitato a parlar anche quando questi latitavano avendo il soggetto in comunità.

 

Altra cosa che si è verificata negli ultimi anni e che ci ha aiutato è stata la difficoltà di avviare una presa in carico con il Cps del nostro territorio. Abbiamo capito anche che far seguire l’utente dal Cps del territorio comunitario era poco funzionale poiché i medici del servizio inviante si trovavano variazioni di terapia, non sempre condivise, e questo quando avevano una buona conoscenza dell’utente, talvolta è stato anche vissuto come un agire alle loro spalle. Soprattutto non era un vantaggio per l’utente che su questo territorio è di passaggio e deve continuamente spostarsi, riaprire prese in carico e vivendo un continuo ripartire. Abbiamo iniziato quindi ad affidarci ai medici del Sert. Le prime volte siamo stati disponibili anche agli accompagnamenti presso il servizio inviante poi via via le cose vengono da sé e ci siamo anche fidati tutti dell’utente che va da solo e poi ci si confronta. L’utente che gira con le ricette in mano e ce le consegna al rientro. Lui non sa se noi sappiamo che le ha, al rientro verifichiamo se ce le porta o meno.

 

Lo stesso anche con altri servizi, come per esempio le tutele minori, che a vario titolo dialogano con noi: nella piena convinzione che il bene del minore viene prima di tutto e che noi ci occupiamo dell’adulto ci siamo sempre fatti da parte. Soprattutto nelle fasi iniziali quando noi conosciamo poco la situazione, ascoltiamo, ci affidiamo e poi, se e quando c’è bisogno e lo riteniamo opportuno, diciamo la nostra.

Ci sono stati momenti dove le relazioni con i servizi si sono accentrate su un singolo operatore perché l’équipe era in cambiamento e, per non intaccare relazioni positive costruite nel tempo, si è concordato di evitare di affidarle ad operatori di passaggio (es. sostituti maternità, sostituti in generale…). Abbiamo poi affiancato le nuove leve, quelle che si capiva che sarebbero restate in cooperativa a lavorare, nello stesso modo in cui siamo stati affiancati noi storici: si va al Sert tutti insieme, le prime volte in ascolto e piano piano, quando cresce la sicurezza dell’operatore, si lascia spazio di intervento; si partecipa agli incontri portando più casi alla volta e ci si fa da spalla come delle équipe allargate; l’educatore di riferimento è invitato le prime volte ad ascoltare le telefonate che il responsabile e i vecchi fanno con i servizi… e piano piano si cresce e si accresce la competenza per poterle gestire.

 

È un modo faticoso di lavorare ma a noi piace e ci fa sentire tutti responsabili di un processo più ampio che non si limita a vedere l’ospite per questi mesi/anni che è da noi, ma guarda al passato e al futuro.

 

Questo modo di lavorare porta a non vedersi solo come educatori, na fa serntire educati dall'esperienza degli altri, che siano gli assistenti sociali dell'Uepe, dei minori, del Sert, i magistrati, i colleghi ..... impariamo da chi incontriamo.

 

Ilaria Rocca,

Responsabile della Comunità terapeutica Gandina

Resta informato